
di Federico Del Prete*
Esemplare la collisione stradale del 17 giugno scorso tra due persone a Misano Gera d’Adda (BG). A scontarsi frontalmente sono intanto state due generazioni diverse. 68 e 21 anni, il primo alla guida di una bicicletta, il secondo di un monopattino. La cronaca non lo precisa, ma c’è da giurare che quest’ultimo fosse elettrico. La peggio l’ha avuta il sessantottenne, in condizioni critiche.
“La dinamica dell’impatto è ancora al vaglio delle forze dell’ordine”, scrivono in questi casi i giornalisti, ma per chi guardasse la rotonda in questione c’è poco da vagliare: i due si sono scontrati provenendo in discesa da direzioni opposte, complice forse la penombra del sottopassaggio che attraversa la SP Rivoltana.
Il messaggio che questa collisione contiene non è tanto sulle eventuali responsabilità. Né in quanto caso particolare: come in altre regioni, anche in Lombardia incidenti tra biciclette o, come in questo caso, tra una bici e un monopattino, succedono ormai di continuo.
La riflessione che questo ennesimo brutto episodio suscita è che pur con le limitazioni di legge, difficili tra l’altro a sottoporre a controlli diffusi, il monopattino resta un veicolo a motore, difficilmente compatibile con chi fa girare piedi o pedali con le sue forze.
La nicchia che occupa stabilmente nello scenario della mobilità è stata una manna dal cielo per molte persone escluse dal precedente assetto normativo: avere la disponibilità di qualcosa che va, ma non costa, in un ambito di sempre più schiacciante mobility poverty (vuol dire: non ho i soldi per spostarmi altrimenti, quindi prendo il mono e vado in autostrada).
Per tutti gli altri comincia invece ad essere un problema, perché vuoi o non vuoi ma un monopattino elettrico, ‘fast’ perché fuorilegge, o ‘slow’ sia perché inserito nel ventaglio della sharing mobility,sia perché nel territorio del buon senso, non è considerato alla pari degli altri veicoli a motore e per questo invade spesso il paesaggio della mobilità attiva, aumentando le possibilità di collisione con persone in bicicletta e con i pedoni.
È come se in Italia avessimo messo tutta la mobilità in un acceleratore di particelle, quelle gigantesche macchine che servono a far scontrare le particelle fondamentali per ottenere scienza su sulla struttura fondamentale della materia.
Sbang e crash, ed ecco che ci rendiamo improvvisamente conto che far andare un veicolo a cinquanta chilometri orari dove ci sono persone a piedi fa sì che un’automobile possa tirare sotto un’anziana sulle strisce, o che un monopattino vada a quaranta su un marciapiede o su una ciclabile, magari con su due ragazze con l’aria felice.
Tutti sotto la lente dei fisici delle particelle, che scrutano questo universo oscuro, la galassia di tutti i giorni, annotando su un grande libro chi si scontra con chi e cosa ne viene eventualmente fuori.
Il monopattino elettrico è stata, dicevo, una grande opportunità e una vera e propria mania: si è rapidamente diffuso, finché molte città hanno cominciato a riflettere sull’opportunità di rinunciare. Un veicolo a motore in più nello scenario della mobilità aumenta le disuguaglianze e i pericoli nello spazio pubblico, riduce il benessere a favore della sedentarietà, aumenta la spesa sanitaria e la domanda di energia primaria. Quindi, fuori: almeno quelli dello sharing.
In Italia si sono invece lanciate nello spazio pubblico “mille” modalità di trasporto diverse, senza però fare realmente spazio a nessuna di queste. Sharing, ciclabilità, acceleratori di andatura: tutti vicini-vicini, per lasciare lo stesso spazio di prima a veicoli a motore di una sola specie. Aggiungere senza togliere non serve ad evitare le collisioni, ed ecco che siamo come particelle dentro un grande microscopio, che nessuno sembra però usare.
*Responsabile mobilità e spazio pubblico, Legambiente Lombardia.